Le chiome dei cedri fremevano in balia del vento della sera. Una sera macchiata di sangue.

Elyssa reggeva in lacrime il corpo senza vita del marito. Un uomo scelto per lei dal padre, ma che nel tempo aveva imparato ad amare.

Le sue urla avevano richiamato i servitori e ora intorno a lei si mescolavano grida di dolore e accuse di tradimento. Accuse che lei non aveva nemmeno la forza di ascoltare.

Continuò a sussurrare il suo nome finché la voce non si incrinò, cedendo alle lacrime. Gli occhi azzurri di Sicharbas erano fissi – la sua anima già ritta dinnanzi ai cancelli degli Dèi – e non l’avrebbero più guardata, non avrebbero più sorriso in quel modo speciale, riservato a lei.

“Sorella …”.

Elyssa si lasciò abbracciare dalla piccola Anna, rispondendo distratta ai suoi tentativi di calmarla, di distoglierla dalla vista delle ferite. Anna non capiva che lei voleva restare con Sicharbas fino all’ultimo momento possibile.

Infine i servitori arrivarono e si occuparono del corpo. Elyssa si guardò intorno, i grandi occhi nocciola erano quelli di un cucciolo smarrito; le sue mani tremanti allontanarono la coppa di infuso che Anna voleva farle bere.

“No, non voglio dormire”.

“Ely”.

“No!”.

Era tutto un incubo, una parte della sua mente continuava a ripeterlo, ma era una voce illusoria che non poteva resistere a lungo alla realtà.

Elyssa si sentiva smarrita come una bambina. Come quando era bambina, si trovò a cercare il volto di suo padre, quel sorriso comprensivo capace di confortarla, di farle accettare ciò che stava accadendo. Ma il re di Tiro era morto. Elyssa e Sicharbas sarebbero stati insieme i nuovi regnanti, se lui non fosse stato ucciso. Ucciso. La parola era spietata, letale come il coltello che aveva lacerato la vita del suo sposo, distruggendo così anche il loro sogno.

Anna le rimase accanto fino a che una serva non entrò di corsa a chiamarla, avvicinandosi al letto per spiegare sottovoce alla padrona che la sua presenza era richiesta nella sala delle udienze.

Elyssa trovò la voce per rassicurare la sorella. Non avrebbe fatto nulla, non avrebbe cercato di uccidersi. Anna annuì, ancora esitante, ma infine sembrò esserne convinta.

Rimasta sola, avvolta nella penombra di una sola fiaccola, Elyssa non riuscì a fare altro che inseguire i ricordi e aggrapparsi a loro. I suoi pensieri percorsero i corridoi del palazzo, stanze e giardini che erano stati complici dei momenti più belli trascorsi in due, lei e Sicharbas, davanti a loro un futuro da accogliere insieme. Tutto era stato spezzato, lasciandola sola e inerme di fronte alla potenza dei ricordi che ora facevano soltanto male.

Quando giunse il momento dell’ultimo addio al marito, nel corso dei riti funebri, Elyssa non aveva più lacrime. Si votò interamente alla divina Astarte, la Grande Madre, supplicandola di sostenerla e di dare un senso a quanto stava accadendo.

La morte di Belo, re di Tiro, che ancora pungeva come una spina nel cuore di tutti gli abitanti del regno, la lontananza di suo fratello Pigmalione dopo le lunghe discussioni che sembravano averli separati per sempre, e ora l’omicidio di Sicharbas.

Nei giorni seguenti la cerimonia le voci su un ritorno di Pigmalione tornarono a circolare con insistenza e con esse le insinuazioni e i sospetti che lo volevano mandante dell’omicidio.

Elyssa riuscì ad affrontare i suoi doveri di vedova, sorda agli inevitabili discorsi che fiorivano a palazzo così come ad ogni consiglio – per quanto sincero – dei fratelli rimasti a Tiro, che suggerivano di ritirarsi a riposare nella villa di campagna. Si affidò alle cure di Anna, lasciandosi truccare per presenziare alle udienze che la famiglia reale concedeva ai cortigiani e ai principi pronti a ripartire dopo aver onorato il defunto. Specchiandosi scorgeva una fragilità nel proprio sguardo che la ferì una volta di più, facendola sentire eternamente distante dalla Elyssa che Sicharbas aveva amato. Era irrimediabilmente lontana da se stessa, temeva che non sarebbe mai riuscita a ritrovare la fermezza e il coraggio di andare avanti.

“Credi che nostro fratello tornerà davvero?” – sentì mormorare da Anna, in un tardo pomeriggio di fine estate.

Si trovavano nella corte interna, sedute sul bordo della fontana, le mani che sfioravano pigramente la superficie dell’acqua.

“Non lo so” – le rispose Elyssa, ricordando con un brivido l’ultima discussione prima che Pigmalione lasciasse Tiro. Da quel giorno aveva fatto pervenire appena due messaggi colmi di amarezza e di astio. Continuare a sperare in un rappacificamento era diventato sempre più difficile.

“Una parte di me lo vorrebbe” – riprese dopo un attimo di silenzio.

“E se fosse vero quello che dicono? Se fosse stato lui a volere che Sicharbas …”.

Elyssa si alzò in piedi, i pugni talmente stretti da sentire le unghie affondare nel palmo. “Non voglio crederci, Anna. Non voglio nemmeno pensarci”.

Anna chinò il capo, dispiaciuta. “Perdonami.”

Elyssa le sfiorò una guancia, sforzandosi di ritrovare il sorriso, per non angustiare ancora di più la sorella minore. “Andiamo nelle nostre stanze e non parliamone più”.

Non poté impedire alla propria mente di ripensare a quelle voci, alle paure di Anna, a quello che molti a palazzo ritenevano sempre più vero. Si coricò inquieta più che mai e per ore non fece altro che rigirarsi nel letto. L’aria della notte era insolitamente ferma, un’umidità fastidiosa aderiva alla pelle e affannava il respiro. Sentì le lacrime riaffacciarsi e serrò gli occhi, consapevole che trattenerle anche nella poca solitudine che le era concessa avrebbe soltanto peggiorato le cose. Le lasciò scorrere, offrendole ad Astarte, nelle tenebre della sua stanza che rispecchiavano ciò che aveva dentro. Solo buio.

Il tempo sospese il proprio viaggio ed Elyssa non seppe dire quanto ne fosse trascorso, quando si destò e si sollevò a sedere, sicura che nella stanza ci fosse qualcuno. Non ci furono movimenti, né respiri diversi dal suo, ma la sensazione si rafforzava un istante dopo l’altro, anziché cadere nel vuoto. “Chi…?”.

“Devi andartene, cuore mio. Chi ha voluto la mia morte non intende fermarsi, sta tornando”.

Il cuore di Elyssa mancò un battito all’udire di nuovo calore di quella voce per lei inconfondibile, indimenticabile.

“Dove sei?” – domandò nell’oscurità.

“Sono in te, lo sarò sempre. Ma non voglio che tu mi raggiunga oltre la Soglia prima del tempo. Devi metterti in salvo, a Tiro scoppierà una guerra civile. Se Pigmalione ti troverà qui, userà tutte le sue armi, pur di salire al trono”.

Così era vero. Pigmalione non aveva mai smesso di covare la rabbia per un trono che gli sfuggiva per nascita, arrivando al punto di lottare per ottenerlo altrimenti, con l’omicidio e il tradimento.

Elyssa rabbrividì. Non aveva perso soltanto il futuro costruito insieme a Sicharbas, ma anche il passato.

Fratello mio, come hai potuto?

“Scappa, Elyssa. Non c’è più nulla in Pigmalione del fratello che amavi”.

Elyssa scosse la testa. Nella sua mente Pigmalione, il bambino che era stato, le mostrava sulla spiaggia le conchiglie raccolte, l’orgoglio e la gioia colmavano il sorriso sul visetto tutto sporco di sabbia, sotto una massa di capelli fulvi. Si lasciava prendere la mano nel tornare verso il porto, dove con fare solenne le annunciava che sarebbe diventato il miglior capitano della flotta del padre.

“Non può essere”.

“Te ne prego, Amore. I nostri Dèi non vogliono la tua fine”.

Non vogliono la mia fine…

“Ma hanno voluto che perdessi tutto”. L’amarezza rese la sua risposta fredda e rancorosa.

Altrettanto severo si fece all’improvviso il tono di Sicharbas, che gradualmente divenne visibile agli occhi di Elyssa. La durezza dello sguardo non le impedì di riconoscere i tratti dolci del viso che tanto amava. Qualcosa stava accadendo, però, alla figura del marito, che lentamente si andava formando da un sottile filo di fumo. Era lui, eppure non lo era.

La paura di ciò che lei stessa aveva detto la fece arretrare, consapevole di aver disonorato la propria famiglia, così devota agli Dèi. A capo chino, Elyssa si sentì ancora più sola, in un baratro dal quale non riusciva più a risalire.

“Figlia mia” – le mani incorporee di Sicharbas circondarono le sue – “Guardami”.

Elyssa alzò lo sguardo, inondato di lacrime. Negli occhi di Sicharbas v’era la luce di Astarte e, senza più alcuna traccia di collera, la guardava con un amore che lei sapeva di non meritare più.

“Quella che ti sto chiedendo è una scelta di grande coraggio. Se accetterai di affidarti davvero a me, le tue sofferenze non saranno state inutili e in ogni giorno che vivrai sentirai la presenza di chi amavi e ti è stato strappato”.

“Ma perché lui? Dopo mio padre, perché avete voluto togliermi anche lui?”.

“Per un motivo che ora il dolore e la rabbia continuerebbero a celare alla tua ragione. Il vostro non è un addio assoluto, Elyssa. Come io sono sempre stata presente in lui quando era in vita, nel suo io divino, da oggi in poi il mio abbraccio ti porteranno la sua presenza e il suo sostegno”.

Elyssa annuì, desiderando con tutta se stessa credere a quella promessa, pregando di potersi davvero rialzare.

“Elyssa, sorella!”. I colpi alla porta la fecero sussultare, interrompendo il contatto con la Madre e con Sicharbas. Per un lungo istante, richiamò disperata quella presenza. Aveva riconosciuto fin troppo bene la voce di chi bussava alla porta delle sue stanze e non era certa di poter affrontare ora Pigmalione.

Invece, proprio ora hai in te la forza per affrontarlo. Le sue gambe tremavano, ma quando sentì il fratello discutere con Anna fuori dalla soglia il timore per la sicurezza della sorella ebbe il sopravvento su ogni altra paura. Elyssa si alzò e impugnò la torcia, dirigendosi verso la porta. “Fratello” – riuscì a tenere ferma la voce, facendo poi cenno ad Anna di tornare a dormire, fingendo di ignorare i suoi tentativi di comunicare con lei.

Solo quando la sorella si fu allontanata, Elyssa si rivolse a Pigmalione e sostenendone lo sguardo di sfida lo trovò terribilmente cambiato.

La crudele soddisfazione per ciò che stava per ottenere non era vera felicità, soltanto una sua effimera imitazione. I lunghi viaggi avevano forgiato la sua figura, la determinazione nel suo sguardo sembrava essere nutrita soltanto dalla collera. Il cuore piangeva, mentre Elyssa si sforzava di tenere saldi i nervi.

“Spiegami, fratello, perché sei tornato soltanto ora, nella notte?”.

“Un’accoglienza davvero fredda, mia sorella e Regina”.

Pigmalione entrò nella stanza senza attendere l’invito. Si guardò intorno in un lungo attimo di silenzio, durante il quale Elyssa chiuse fuori dalla porta le inutili proteste delle guardie. Aveva compreso da sola quanto la situazione fosse critica, dall’esterno del palazzo sentiva giungere clangori di spade. Pigmalione non era tornato come un parente, ma da conquistatore.

“Quanti anni ha la nostra piccola Anna, ora?”.

Elyssa tremò visibilmente, nel percepire in quella domanda in apparenza affettuosa una soffusa minaccia. “Cosa vuoi?”.

“Sarà data in sposa al mio generale più fidato”.

Ordini, decisioni che lei avrebbe già dovuto accettare, le scelte del nuovo regnante.

“Temo che la tua ansia di salire al trono ti abbia fatto dimenticare chi è il primogenito, tra noi fratelli”.

Pigmalione intercettò il suo sguardo con un sorriso rilassato, quasi divertito. “Oh, lo so molto bene, invece. Sei tu, sorella. La sovrana che il popolo ama incondizionatamente, così come amava i nostri genitori”.

“E tu riusciresti a meritare lo stesso amore dalla tua gente?”.

“Riuscirei, se mi premesse. Il punto è un altro, Elyssa cara”. Allungò una mano, che Elyssa fermò all’altezza del polso prima che giungesse a sfiorarle il viso.

“Io e te regneremmo nella pace” – riprese lui, più suadente.

“Un traditore dalle mani ancora sporche di sangue? Non riuscirà mai a conservare il trono”.

“Sei abile a usare parole di potere e di giudizio, sorella. Ma saprai accettarne anche le conseguenze? Come resisterà il tuo cuore puro, nel vedere la tua gente morire a causa tua?”.

Fai attenzione, Elyssa. Cuore mio, ti prego…

Il sorriso di Pigmalione si allargò, facendosi ancor più sfrontato quando Elyssa lasciò la presa sul suo polso.

Tratteneva a stento la frustrazione. Doveva ammettere che il fratello la conosceva ancora molto bene. Sapeva che lei non avrebbe mai potuto accettare di essere la causa della morte e del dolore anche tra la sua gente. Ma non intendeva nemmeno cedere ad un simile ricatto, consegnando il regno di suo padre al mostro che Pigmalione era diventato.

Madre, Sicharbas, datemi la forza.

“Tiro ha ancora la sua regina?” – incalzò lui. Incombeva su di lei, molto più alto e capace -se avesse voluto -di prenderla con la forza. Elyssa dovette fare i conti con la verità più dolorosa, quella che finora non era stata in grado di accettare nemmeno quando l’aveva udita dalla voce di Sicharbas. Pigmalione non era più lì, non v’era niente di lui in quell’uomo.

“Non voglio essere testimone, né tanto meno regina, di un regno governato con l’arroganza del più forte” – gli rispose.

“Allora sarai una degli schiavi. Questi sono i termini dell’accordo”.

“Da traditore e assassino quale sei, non hai alcun diritto di stabilire i termini dell’accordo” – replicò Elyssa. Sentiva di nuovo fermezza nel proprio cuore, sentiva che agire per il bene della sua gente era ciò che avrebbe fatto Belo… e anche Sicharbas, se gli fosse stato permesso di governare. Sentì che era questo, ciò che la Grande Madre aveva inteso dire.

“Dunque, quale sarebbe la tua proposta, Regina di Tiro?” – la beffeggiò Pigmalione.

“Fonderò altrove un nuovo regno, porterò con me Anna e la gente che vorrà seguirmi. Non voglio che gli orrori di una guerra distruggano quello che nostro padre aveva costruito”.

Pigmalione azzardò il gesto di baciarle la mano. Elyssa non glielo permise; lo freddò con lo sguardo, sfidandolo a osare.

“Se soltanto uno dei tuoi uomini userà violenza sugli abitanti di Tiro, hai la mia parola: su di te penderà la maledizione di tutti i nostri Dèi. Credimi, fratello, non vuoi scoprire cosa significhi mettersi contro di Loro”.

***

Una piccola flotta di navi s’allontanava una decade dopo dal porto di Tiro, solcando quelle acque che per mesi avrebbero cullato il seme della futura Cartagine.  Elyssa sedeva a prua della nave che guidava la rotta, la sorella Anna stretta in un abbraccio che dava conforto a entrambe. Non c’erano stati altri sogni o altre apparizioni di Astarte, ma una nuova forza dentro di lei confermava ad Elyssa di aver fatto la scelta giusta. E in quella decisione che tanto le era costata, che la rendeva una regina in esilio, c’era un’energia che la faceva sentire amata, che racchiudeva in sé  lo spirito della Madre e l’amore del suo sposo, proprio come la Dea le aveva sussurrato nel momento più cupo.

 

Un racconto di Francesca Poggioli

Copyright © 2014 Francesca Poggioli

 

Nota dell’Autrice:

Elyssa, conosciuta anche come Didone di Tiro, futura fondatrice di Cartagine, era la primogenita dei quattro figli di Belo, sovrano della città-stato fenicia. “L’esilio della regina” è stato ispirato da un’amica scrittrice, Daniela Ori, che in un suo breve e bellissimo racconto ha descritto Elyssa nel momento della sua ultima e coraggiosa scelta, che ne ha consegnato la memoria all’eternità. Pur dedicandolo a Daniela, io ho scelto invece di narrare nel racconto la mia idea dell’inizio di questo lungo cammino di Elyssa, seguendo la versione della sua leggenda diversa da quella dell’Eneide, dove si sarebbe uccisa per amore, per il dolore provato per la partenza di Enea.

 

 

 

 

 

1 commento

  1. Ringrazio Francesca Poggioli per avermi dedicato questo intenso racconto. La storia di Elyssa è la storia di una donna che ha vissuto con passione. Narrare di lei è come ridarle vita….Daniela

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