FUMO di Daniele Biagioni

Quando il tempo dell’isolamento sembra non finire mai, forse un fumo di speranza ci riporta alla vita. Buona lettura del bellissimo racconto del socio Daniele Biagioni.

“Secondo te, da quanto tempo siamo qui?” – domandò Velia osservando la sera arrampicarsi lungo il campo, fino a raggiungere la casa, come un fumo nero e denso. Aveva uno sguardo triste, con gli occhi a fessura che osservavano, attraverso la finestra, la valle divenire sempre più scura.

Il fuoco dentro al caminetto si rifletteva sui suoi lunghi capelli corvini striati di bianco. Quella domanda era ormai divenuta un rituale. Alex, come sempre, tentò di risponderle, pur nella assoluta incertezza: “Almeno da 5 anni… forse 6… se pensi agli inverni passati qui…”. 

“Secondo me sono molti di più – ribatté lei con un filo di voce – siamo invecchiati così tanto”. Quella conversazione si ripeteva spesso, soprattutto a sera inoltrata, quando il crepuscolo lasciava lentamente spazio alla notte, dando quel senso di incertezza interiore che spinge a cercare qualche punto fisso dentro di sé. La verità era difficile ormai da conoscere. Velia e Alex erano arrivati in quel luogo disperso sull’Appennino Emiliano, per scappare da “la fine del mondo”. Fra di loro la chiamavano così, senza nominare mai quella parola: virus. Quella sì che faceva davvero paura. Il virus aveva distrutto completamente la loro realtà. Spazzato via le loro vite. Avevano visto solo morte intorno a loro per più di un anno e poi, quando avevano capito davvero che non si sarebbe più potuti tornare indietro, erano fuggiti via dalla città e si erano arrampicati sulle montagne. 

Il primo ad arrivare in quel luogo isolato e abbandonato da decenni era stato Alex. Allora era un giovane uomo pallido e smilzo.  “Quando sono arrivato, la casa quasi non si vedeva, coperta come era di vegetazione – amava raccontare a Velia – e ho dovuto lavorare giorni per riuscire ad aprire una porta ed entrare”. 

Mesi dopo era arrivata Velia. 

I due non si conoscevano, prima. Erano scappati da città diverse e capitati, casualmente, nello stesso luogo sperduto. Quando Alex aveva visto Velia la prima volta, aveva avuto paura. Ormai si erano tutti abituati ad avere paura l’uno dell’altra, per timore di infettarsi. L’uomo temeva che lei portasse quel malefico virus con sé. E così erano rimasti distanti per parecchio tempo ma lui non aveva mai avuto il coraggio e il desiderio di mandarla via. C’erano voluti mesi per vincere la preoccupazione e per farli avvicinare. Un passo alla volta, uno nella direzione dell’altra. Poi, sempre più vicini. 

Dopo quell’incontro le stagioni si erano susseguite in un progressivo isolamento. Non avevano più visto né incontrato nessuno, in quel luogo. E non si erano mai spostati da lì. Nel frattempo erano venute meno le connessioni telefoniche e anche la radio trasmetteva a intermittenza. Così non sapevano più nulla di quello che stesse accadendo nel resto del mondo. E lentamente cominciarono a pensare che, di fatto, non stesse più accadendo un bel niente. Avevano passato giorni attaccati alla piccola radiolina portatile nella speranza di carpire, tra i rumori, qualche parola che li aiutasse a comprendere come si stesse evolvendo la situazione. Ma era difficilissimo: la linea era molto disturbata e la corrente andava e veniva. 

“Hai sentito? Hanno ricominciato a parlare di un vaccino! – disse Velia una volta con una nota di entusiasmo – Mi è parso di sentire quella parola alcune volte, negli ultimi giorni!”. 

Alex non l’aveva sentita affatto. Ma gli dispiaceva dire che, secondo lui, era solo l’ultima flebile speranza che le faceva scambiare una parola per un’altra, più desiderata. “Forse – rispondeva Alex – sarebbe bello… anzi, sarebbe grandioso!”. 

Una volta, improvvisamente, su un canale erano riusciti ad ascoltare quasi una canzone intera! Non accadeva da tanto tempo. Alex l’aveva riconosciuta: “Ma è Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd! – disse con eccitazione estrema – Dai balliamo!”. Aveva abbracciato Velia e canticchiando l’aveva condotta qua e là nella stanza. Lei si era messa a piangere sommessamente, in quella occasione. A lui non era chiaro il motivo. Forse per via del fumo che faceva il camino: con la legna umida non tirava mai molto bene. 

Nel frattempo, anno dopo anno, erano divenuti esperti di sopravvivenza. I primi periodi avevano avuto davvero fame. Ma poi avevano lentamente iniziato a conoscere i segreti del bosco e a utilizzarli a loro favore. Avevano imparato a distinguere le bacche buone da mangiare da quelle velenose: il prugnolo dal sorbo, il corniolo dalla belladonna, il sambuco dall’ebbio, il biancospino dal tasso. E poi le radici commestibili: la genziana, il topinambur, il cren, il tarassaco… Lo avevano scoperto sulla loro pelle. 

Una volta Velia era andata a cercare cibo nel bosco ma non era tornata. Era ormai notte e Alex era uscito a cercarla senza risultato. Le sue grida rimbombavano in tutta la valle ma non ottenevano risposte. Aveva cercato ovunque ma non aveva idea di dove potesse essere andata. Solo il giorno dopo l’aveva trovata distesa accanto a un cespuglio con la bocca nera per avere ingurgitato delle bacche. Si muoveva appena.

“Come ti senti, Velia!?”. 

“Sono stata davvero male, forse sono morta… Ho visto delle cose incredibili… ti racconterò… forse…”. 

Velia non aveva mai voluto raccontare cosa aveva visto, ma da quel giorno era cambiata. Di sicuro, quelle esperienze accrescevano le loro conoscenze: anno dopo anno, il bosco aveva meno segreti per loro. Avevano imparato a seguire i sentieri degli animali, anche a quattro zampe quando era necessario, perché in luoghi come quello la natura era padrona incontrastata da decenni. Mano a mano che conoscevano queste nozioni pratiche, sembravano perdere quelle teoriche precedenti, come in un processo di sostituzione progressiva. 

“Sai, Alex, io non mi ricordo più niente. Non so nemmeno se so ancora leggere!”. Stava aspirando da uno di quei piccoli sigari che fanno un sacco di fumo: li faceva con le foglie del nocciolo. 

“Ma no, è impossibile…” – disse Alex mentre cercava di ripassare mentalmente la forma delle lettere.

Il mondo da cui provenivano sembrava essersi spento completamente. Ormai da molto tempo, anche la corrente elettrica non era più tornata. L’unica fonte di luce nelle lunghe notti invernali era la vampa nel vecchio caminetto. Ed era anche l’unico mezzo per scaldarsi. La casa si ergeva in una posizione elevata e si vedeva una gran parte della valle, fino alle cime più alte. Si notavano molti paesi ma senza luce elettrica, di notte il buio era totale. Inoltre, già da parecchio tempo, non si vedeva alcun segnale di attività umana.

“Alex, siamo rimasti solo noi, non c’è più nessun altro al mondo”. Velia era seduta davanti a casa, con la schiena appoggiata al muro decrepito di sasso. Si godeva qualche raggio del tiepido sole invernale. Entrambi sapevano che prima o poi uno dei due avrebbe pronunciato quella fatidica frase. Tutti e due lo pensavano da tempo. Ma dirlo… dirlo era un’altra cosa: reificava definitivamente il fatto. Distruggeva le ultime speranze. 

“No. Non può essere. Magari c’è qualcuno che noi da qui non vediamo… Dall’altra parte della valle, verso la Toscana… O qualcuno che ha timore di farsi vedere e per questo non accende nemmeno un fuoco che si noterebbe per via del fumo”. Alex sapeva di stare mentendo. Anche a se stesso. 

“E come pensi possano sopravvivere con questo freddo? Non vedi che stanotte è tutto ghiacciato?!”. Velia balzò in piedi e quasi con rabbia ruppe una lastra di ghiaccio con il tallone. “Se siamo rimasti solo noi… che senso ha… lottare ogni giorno per sopravvivere? Viviamo come bestie”. Quelle parole colpirono Alex nel profondo. Non sapeva nemmeno lui davvero perché, ma al termine della frase di Velia, aveva sentito come qualcosa spezzarsi dentro. Si allontanò con la scusa di andare a cercare della legna. 

Quell’anno l’inverno sembrava non finire mai. Avevano smesso da tempo di tentare di contare i giorni e i mesi. Ma di certo qualcosa di strano stava accadendo. Il freddo non pareva allentare la sua morsa e la natura non dava segni di rinascita in alcun modo. I tramonti sembravano rimanere confinati all’estremo sud ovest. Alex si svegliava sempre dopo Velia. Lei usciva prestissimo alla mattina. Quel giorno, quando anche lui uscì di casa e non la vide, capì subito che c’era qualcosa di anomalo. Il silenzio era totale e di lei non c’era alcuna traccia. Iniziò a guardarsi intorno e il suo sguardo spaziò per tutta la valle: era una mattina chiarissima di inverno, di quelle terse in cui il cielo non ha nemmeno una nuvola. Non gli fu difficile individuare una colonna di fumo che si levava da un grande falò nella parte bassa della valle, verso nord ovest. Era stato acceso accanto a una casa che loro credevano da sempre abbandonata. Fu un colpo al cuore. Gli fu immediatamente chiaro dove poteva essere Velia. Questa volta, sapeva dove cercarla. 

Modena, 13 novembre 2020

2020@copyrightDanieleBiagioni

7 commenti

  1. In questo tempo di solitudine e perplessità, è bello leggere un racconto che evoca la speranza di un futuro migliore. Nulla di quello che abbiamo appreso e sofferto in questo periodo di pandemia si perderà, se riusciremo a realizzare un modo nuovo e più semplice di vivere. Grazie all’Autore per questo racconto.

    1. È una osservazione molto saggia Martino. tutto è duplice se lo si osserva in profondità. buon anno.

  2. Il distanziamento sociale ci fa desiderare di più la presenza. Grazie Daniele per questo racconto suggestivo!

  3. Bellissimo questo racconto che, avvolto sin dai primi righi da un velo di tristezza, volge lo sguardo ad un mondo nuovo e rinnovato, proprio quello che tutti noi vorremmo, spossati ormai da mesi da una persistente pandemia . Il semplice segreto per rinascere ? Scrollarsi di dosso tutte le negatività di un mondo giunto al capolinea per riappropriarsi di quel legame vitale con la natura andato perduto.
    Ritorneremo a ballare!
    Bello il messaggio di speranza.
    Complimenti all’autore.

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