Una canzone ispira un racconto che ci trasporta, come per magia, in Cornovaglia. Per la rassegna LA SCRITTURA CURA, ecco il contributo del socio Daniele Biagioni. 

IF THERE IS A HORIZONTAL LINE (SE C’E’ UNA LINEA ORIZZONTALE)

di Daniele Biagioni

La luce di maggio inondava i campi con dolcezza. Il telefono non suonava da giorni. Le ore passavano così lentamente e in modo così anonimo, da rendere l’orologio completamente inutile. Dal momento in cui si era trasferito, la città, con il suo clamore distraente, era divenuta immediatamente un ricordo. Come se qualche centinaio di chilometri avesse il potere di cancellare la recente realtà degli anni trascorsi in una Londra assordante. In un virtuale duello fra lo spazio e il tempo, il primo pareva avere avuto la meglio. Se ne accorgeva soprattutto nel tardo pomeriggio, quando usciva in veranda a bere il suo tè. E osservava. Gli occhi si muovevano dalla scura tazza fumante allo splendore del campo di orzo verde pallido sempre mosso dal vento. La coltivazione arrivava a ridosso della casa e della quercia, possente gigante solitario, che sembrava appoggiarsi alle mura. Il suo tronco ricurvo pareva quasi fuggire dal campo, come temendolo. Un tempo quell’albero maestoso non era stato solo. Un tempo davanti a quella casa si estendeva uno dei più grandi boschi della Cornovaglia. Lo aveva sentito dire dal Pastore di Summercourt. Pareva incredibile anche solo immaginarlo, eppure era così. 

Quel pomeriggio suonò il telefono. Rispose: era lei. “Sì, va tutto bene. Sì, il libro procede bene. Ciao”. Non era vero. Non andava bene nulla e non scriveva una sola parola da giorni. A sé stesso non riusciva sempre a mentire. Eppure quello era un luogo stupendo. Non poteva negarlo. La sera, passeggiando intorno a casa, poteva scorgere le luci delle colline vicine e lontane. E poi sì, certe mattine sentiva l’odore dell’oceano che non era poi così lontano. La siepe di erica multicolore stava sfiorendo, ma era comunque davvero incantevole. Ma tutto ciò non bastava. Ogni cosa sembrava impregnata da un effimero senso di pace. Voluta ma non trovata. 

Poi venne quella sera. Il primo grande temporale che si poteva definire estivo. Tuoni, fulmini e quant’altro. Non si ricordava di avere mai sentito tanta acqua scendere dal cielo. La casa sembrava non potere reggere tutta quella violenza. Improvvisamente, il rumore della pioggia fu interrotto dal clacson di un’automobile. Si affacciò alla finestra: una donna stava dritta in piedi accanto a un’auto enorme. Fissava la casa immobile e seria. L’acqua le scorreva sul corpo. I capelli, lunghi e castani le aderivano al vestito e al corpo stesso. Uscì in fretta e le domandò di cosa avesse bisogno: non rispose in modo sensato, ma iniziò a piangere e a sussurrare frasi con una pronuncia quasi del tutto incomprensibile. Allora la accompagnò in casa: la pregò di sedersi e le diede un telo per asciugarsi; ma lei non si asciugò, né si sedette. Lui smise di fare domande e la osservò girovagare intorno al tavolo con gli occhi spaventati come quelli di un animale in gabbia. La bellezza del suo viso era sconcertante e quasi gli toglieva il fiato. E allo stesso tempo la tristezza che da esso traspariva colpiva il suo cuore con impietosa crudeltà. Poi il continuo sussurro che lei emetteva divenne un sottile canto e fu comprensibile….   “Do you think just like you can divide this, you as yours me as mine..before we were us? If the rain has to separate from itself does it say, pick up your cloud..“. Parole cadute dal cielo in mezzo alle gocce di pioggia. Anche ora che le scriveva sul foglio sembravano bagnate. D’un tratto la sua voce si fece tremolante. Pensò avesse freddo e corse in camera a prenderle una coperta. Ma al suo ritorno lei non c’era più: in pochi secondi era sparita. Stavolta lo spazio era stato nettamente battuto dal tempo. Neppure la sua automobile era più davanti a casa. E la pioggia se ne andò con lei, in un baleno, pochi minuti dopo. Cercò di sapere qualcosa di lei nei giorni successivi, ma fu inutile. Lei fu come un’apparizione: uno di quei personaggi che compaiono senza preavviso in un racconto e scompaiono senza dare al protagonista la possibilità di chiedersi il perché. Eppure quell’insistente “perché” che gli rimbombava nella testa era così difficile da soffocare. Non ne parlò con nessuno, neppure a lei quando, giorni dopo, si degnò di chiamarlo. Che bisogno c’era di parlare di qualcosa che nemmeno lui aveva capito? E presto ricominciò la routine. Il nulla che da sempre esisteva nel suo cuore sembrava avere trovato la sua dimora ideale a Summercourt. 

Infine venne quel pomeriggio in veranda. Il cielo era limpido e i contorni delle poche nuvole bianche erano così precisi da parere essere disegnati col pennello. Le colline erano più piatte del solito e la quercia aveva il tronco ancora più storto. Si mise a pensare come doveva essere quella foresta di querce che un tempo ricopriva tutto lì intorno. Non sapeva perché quel pensiero fosse arrivato così all’improvviso. Tutto doveva essere diverso allora. Il gioco delle ombre e delle luci. Il vento caldo che ora lo colpiva dolcemente sul viso. Il cielo maculato. La linea dell’orizzonte che ora lui poteva vedere perdersi nell’infinito, grazie alla mancanza di qualsiasi ostacolo visivo più alto di una spiga di orzo.  Probabilmente fra gli alti fusti delle querce ombrose anche il suo umore sarebbe stato diverso. Anche lui sarebbe inevitabilmente stato un’altra persona. Fu allora che capì. E non riuscì a trattenere le lacrime. “If there is a horizontal line that runs from the map off your body straight through the Land shooting up through my hearth…will this horizontal line know to find where you end and where I begin..? “. 

Le parti in Inglese sono tratte da “Your cloud”, un brano di Tori Amos, in Scarlet’s Walk, 2002.

Daniele Biagioni

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Immagine: Orizzonte inglese (Foto D.Ori, 2018)

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