GEMELLI di Martino Sgobba

In tempo di pandemia siamo diventati tutti uguali, omologati…come gemelli. Resta qualche diversità? Il socio Martino Sgobba ce lo svela nel suo ultimo racconto. Buona lettura

I gemelli, quelli identici, sin da piccoli destano meraviglia in noi, almeno fino a quando la nostra gioia per la duplicazione non si tramuti in riflessione sull’anomalia, in preoccupazione per la loro eventuale difficoltà nel trovare il personale sentiero nella vita. Lo stupore si guasta più facilmente, se le mamme li agghindano allo stesso modo, a volte nemmeno con la pietà di distinguerli con colori diversi, con una tacca qualsiasi che eviti l’effetto diplopia a chi li guarda

Illuse di essere state prescelte per mostrare un miracolo – che sicuramente ha sottratto il loro parto al normale esito della procedura riproduttiva – alcune madri insistono nel rivestire gli uguali figli con uguali panni finché non emerga individualità indomabile o qualcuno non le convinca a cessare di rovinarli. Allora la vita, con la sua varietà, conduce i gemelli su strade differenti. Quando i percorsi si separano, i corpi si diversificano nel gesto, nella postura, nello sguardo e, con il passare del tempo, nella diseguale usura delle membra.

Qualora invece la specularità si imponga anche in età adulta, insorge un grave problema. Infatti, le esistenze parallele, destinate alla stessa stazione, saranno costrette a scivolare sulle rotaie di un binario unico, riservato al loro esclusivo uso. L’incanto suscitato da gemelli infanti o ancora bambini si trasforma in penosa perplessità allorché appaiono due fratelli come Matteo e Mattia, più che cinquantenni, davvero indiscernibili nel volto, nel passo, nella movenza, nella statura, nell’abbigliamento e in tutti gli altri segni, compresi i resti della capigliatura e le mascherine anticovid, protettive di bocche e nasi.  

Non conoscendoli, Luca li chiamò Matteo e Mattia, immaginandoli nati da genitori di fantasia anagrafica scarsa o sciagurata. Scelse quei due nomi così simili, per forzarsi a vedere i fratelli uguali e allo stesso tempo distinti, pur non riuscendo a rilevare tracce avvaloranti una sia pur minima dissomiglianza. Li incontrò durante una passeggiata domenicale. In direzione contraria alla sua, procedevano lungo il marciapiede, uno al fianco dell’altro, in perfetto allineamento e in sincronia di movimento, ma distanziati, quasi a consentirgli di passare fra loro, senza esserne disturbati più di tanto. Altro spazio Luca non avrebbe avuto per evitare di fermarsi e scostarsi: si fece da parte, perché intuì che quel vuoto era molto pieno, teneva insieme i due gemelli, avanzava con loro.

Stupito, Luca iniziò a seguirli, stando ben attento a leggere Matteo sulla schiena a sinistra e Mattia su quella a destra, senza far confusione. Più volte li superò e più volte tornò indietro per osservarli frontalmente. Quando ritenne di averli esaminati in modo esauriente e di poter concludere, senza alcun dubbio, che erano indistinguibili, si scoprì incatenato ai loro passi e il pedinamento proseguì. D’altra parte, non temeva di essere scoperto, dato che i fratelli parevano assolutamente non curarsi di quanto avveniva al loro passaggio: ignoravano anche gli sguardi più insistenti e non ascoltavano i commenti, nemmeno quelli meno trattenuti dalle labbra.

Luca aveva due questioni da chiarire. Una era, per così dire, di natura incerta, forse materiale o forse sensoriale; di maggior rilievo l’altra e di carattere sicuramente esistenziale. Matteo e Mattia erano vestiti allo stesso modo. Soltanto i due giacconi avevano un particolare che li contraddistingueva, pur essendo della medesima foggia e dello stesso colore: sul petto sinistro di quello di Matteo non c’era la targhetta presente su quello di Mattia. Luca avrebbe voluto capire se fosse stata tolta di proposito, in estremo tentativo di personalizzazione o, più semplicemente, se si fosse staccata per deficienza adesiva. Il dubbio rimase irrisolto e l’investigatore si dovette accontentare della certezza della pregressa presenza dell’etichetta mancante, come attestava un evidente segno di colore meno sbiadito là dove c’era stato il marchio. L’assenza non gli era sfuggita già nel primo incontro frontale e non ci si deve sorprendere, dato che era l’unica nota difforme e quindi facile a cogliersi; la variazione cromatica era stata cercata, perché era logico che ci fosse. L’altro problema di Luca potremmo formularlo così: la mestizia di Matteo e Mattia era reale o era un effetto della loro paradossale unicità, della loro radicale diversità rispetto a tutte le altre persone? Tutto appariva triste in loro: l’incedere, le mani nelle tasche, le scarpe, i pantaloni, i giacconi, la malinconia concava degli occhi, le pieghe delle mascherine, l’ordine rado dei capelli. Era davvero così? O i due fratelli appartenevano a una dimensione speciale della vita? A una forma di esistenza da poter interpretare soltanto per via analogica e quindi in modo incerto? Chi avrebbe potuto escludere che la sintonia della loro marcia e di ogni loro gesto fosse indice di una natura altra rispetto alla nostra? Soprattutto era impressionante la corrispondenza delle teste. Guardavano solo avanti, come se fossero avvitate a un collo rigido e fisso. I gemelli parlavano, ma le parole non spostavano di lato le bocche e gli occhi. Erano connessi fra loro in un modo ignoto agli altri umani; non avevano bisogno di altro, se non di permanere nella loro individuale condizione: era da preservarsi la corrispondenza tra le due metà in cui si era scissa la cellula originaria. Erano cresciuti come diade chiusa al mondo e si erano consegnati, quanto più possibile, al tempo interno, cercando di limitare le perturbazioni di quello esterno. 

Questi erano i pensieri di Luca mentre li pedinava. Non cessava di essere psicologo nemmeno quando era fuori servizio; anzi quando era fra la gente si esercitava, con maggiore libertà, nell’arte più difficile: capire come il corpo sia l’altro nome dell’anima.

Con il loro passo lento, Matteo e Mattia misurarono buona parte del lungomare di Bari, completamente estranei alla vivacità dei flutti e alla fissità solenne degli edifici d’età fascista schierati sull’altro lato della strada. Palazzi, caserme e mare li scrutavano, sbalorditi dal loro disinteresse, che non sarebbe stato attenuato nemmeno da uno spruzzo d’onda fuori misura o dal crollo di qualche marmorea lastra.

Pochi minuti prima delle ore tredici, i gemelli si fermarono. Attraversarono l’ampia strada, infilandosi, senza esitazione, in una delle rare pause del traffico, deludendo il semaforo che li aspettava poco più avanti, pronto ad alterare, a loro vantaggio, la successione dei colori. Luca non mancò di registrare quell’atto di trasgressione, ma vi scorse anche la conferma della specialità percettiva dei fratelli: sapevano che sarebbero passati e che non sarebbero stati investiti. Dopo pochi minuti Matteo e Mattia entrarono in una trattoria. 

Ripresosi dallo sconcerto per quella inaspettata terrestrità della coppia, Luca decise di aver appetito e scelse il posto che consentiva la migliore visuale. Notò che avevano già sistemato, uno sull’altro, i giacconi su una sedia, mostrando due maglioni identici. Poi li vide togliersi le mascherine e adagiarle lateralmente sul tavolo. Ovviamente i visi svelarono assoluta interscambiabilità. Alla fine del pranzo, alle cui simmetrie è del tutto superfluo dedicare parole, prima di pagare, Matteo e Mattia si alzarono e raggiunsero i servizi igienici. In loro assenza, il cameriere lasciò la nota del conto sul tavolo e, strizzando l’occhio a Luca, invertì la posizione delle mascherine. I gemelli tornarono, saldarono e si diressero verso l’uscita. Prima della soglia, però, si fermarono, si guardarono dubbiosi, si intesero e, infine, si scambiarono le mascherine. Il cameriere e Luca si sorrisero, contenti che quei due si avvertissero differenti almeno per il sapore e per l’odore del fiato

Bari, 7 aprile 2021

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